Dossier associazioni ambientaliste: sul ritorno al nucleare è no senza discussione
Per Wwf, Greenpeace e Legambiente non c’è margine alla trattativa con il Governo perché il nucleare e antieconomico, insicuro e inutile come risposta energetica e ambientale
Il nucleare è la fonte energetica più costosa che ci sia. Non ha risolto nessuno dei problemi di smaltimento delle scorie e di sicurezza degli impianti. Non è la risposta al mutamento climatico. Greenpeace (con il direttore delle campagne Pippo Onufrio), Legambiente (con il presidente Vittorio Cogliati Dezza) e Wwf (con il direttore generale Michele Candotti) hanno presentato oggi a Roma le ragioni della loro contrarietà all’atomo chiarendo che sul nucleare non c’è margine di trattative e che le parole del governo “sono provocazioni”, sono assimilabili a “una dichiarazione di guerra”. Sul ritorno all’atomo, per dirla con Pippo Onufrio del Wwf, “non si discute”.
Per le tre associazioni ambientaliste la soluzione per fermare la febbre del pianeta e ridurre la bolletta energetica italiana “è molto più semplice” dell’opzione nuclearista rilanciata dal ministro Claudio Scajola: “E’ fondata sul risparmio, sull’efficienza energetica e sullo sviluppo delle fonti rinnovabili. Semplicemente perché è la via più immediata, più economica e sostenibile”.||Non è economico. “Non è vero, infatti, che il nucleare sia economico”. Gran parte del costo dell’elettricità da nucleare è legato al costo di investimento per la progettazione e realizzazione delle centrali, spiegano le associazioni nel dossier, “che è almeno doppio di quanto ufficialmente dichiarato, e richiede tempi di ritorno di circa 20 anni”.
Se a questo si considerano anche i costi di smaltimento delle scorie e di decommissioning degli impianti nucleari “i costi diventano addirittura poco calcolabili. Tutti gli studi internazionali mostrano come sia la fonte energetica più costosa. Dove il kWh da nucleare costa apparentemente poco è perché lo Stato si fa carico dei costi per lo smaltimento definitivo delle scorie e per lo smantellamento delle centrali. E sono proprio queste spese ad aver scoraggiato gli investimenti privati negli ultimi decenni”.
Tutti gli scenari, “persino quello dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica, prevedono nei prossimi anni una riduzione del peso dell’atomo nella produzione elettrica mondiale”. Secondo le stime dell’Aiea contenute nel rapporto ‘Energy, elettricity, and nuclear power estimates for the period up to 2030’ “si passerebbe dal 15% del 2006 a circa il 13% del 2030, nonostante la ripresa dei programmi nucleari in alcuni Paesi”.||Incompatibile con il libero mercato dell’energia. Il dossier delle associazioni dimostra anche che “Nucleare e liberalizzazione del mercato sono incompatibili”. Secondo le ultime stime disponibili del Doe statunitense “il costo industriale dell’elettricità da nucleare da nuovi impianti è più alto rispetto alle fonti tradizionali. Tra costo industriale e sussidi – rilevano gli ambientalisti – per sostenere il nucleare il costo raggiunge circa gli 80 dollari al MWh”.
Gli ambientalisti spiegano che secondo l’agenzia di rating Moody’s, nonostante i generosi incentivi e sussidi negli Usa “solo uno o due centrali verranno costruite sulla trentina attese”. In Italia, “il nucleare non consentirebbe pertanto di ridurre la bolletta energetica.
Per renderlo un pezzo consistente della produzione energetica nazionale occorrerebbe costruire da zero tutta la filiera, con un immenso esborso di risorse pubbliche”. Servirebbero almeno 10 centrali, per un totale di 10-15mila MW di potenza installata, e tra i 30 e i 50 miliardi di euro di investimenti, senza dimenticare gli impianti di produzione del combustibile e il deposito per lo smaltimento delle scorie. “Anche assumendo uno schema ‘finlandese’ – sottolineano le associazioni – con un consorzio di industrie consumatrici che si impegna a comprare per lungo tempo elettricità dai produttori nucleari i rischi finanziari, come dimostra proprio il caso finlandese, sarebbero elevatissimi. Le centrali – aggiungono – nella migliore delle ipotesi, entrerebbero in funzione dopo il 2020, e gli investimenti rientrerebbero solo dopo 15 o 20 anni”.||Non serve per la lotta contro i cambiamenti climatici. Per Greenpeace, Legambiente e Wwf, “non è vero che il nucleare sia la risposta ai cambiamenti climatici”. Anzi, in Italia, “scegliere il nucleare significherebbe mettere una pietra tombale su qualsiasi prospettiva di riduzione delle emissioni di CO2”. Nella migliore delle ipotesi “il primo impianto entrerebbe in funzione tra almeno 10 anni, e l’obiettivo dichiarato da Enel e Edison è di coprire il 15-20% del fabbisogno elettrico al 2030 con 10-15 centrali”. Se la priorità fosse realizzare centrali nucleari, poiché gli investimenti sono economicamente alternativi, “dovremmo dire addio agli obiettivi comunitari e vincolanti del 30% di riduzione delle emissioni di CO2, del 20% di produzione energetica da rinnovabili e del 20% di miglioramento dell’efficienza energetica al 2020”. Uno scenario che non coincide con gli obiettivi di Kyoto. “Il nucleare, inoltre, può fornire solo elettricità: questa rappresenta il 15% degli usi finali di energia mentre l’85% è costituito da carburanti per i trasporti e calore per riscaldamento e processi industriali”. ||Non è sicuro. Non e’ vero inoltre, sostengono gli ambientalisti, “che il nucleare di oggi sia sicuro”. Sulla sicurezza degli impianti ancora oggi, a oltre 22 anni da Chernobyl, “non esistono garanzie per l’eliminazione del rischio di incidente nucleare e la conseguente contaminazione radioattiva”. E rimangono tutti i problemi legati alla contaminazione ‘ordinaria’, “derivante dal rilascio di piccole dosi di radioattività durante il normale funzionamento delle centrali, a cui sono esposti i lavoratori e la popolazione che vive nei pressi”.||Il problema delle scorie. L’ultimo capitolo del dossier delle associazioni riguarda il sito unico per lo smaltimento delle scorie radioattive. “Non esistono ad oggi soluzioni concrete. Le circa 250mila tonnellate di rifiuti altamente radioattivi prodotte finora nel mondo – sottolineano le associazioni – sono tutte in attesa di essere conferite in siti di smaltimento definitivi. Lo stesso vale per il nostro Paese che conta secondo l’Apat circa 25mila metri cubi di rifiuti radioattivi, 250 tonnellate di combustibile irraggiato, a cui vanno sommati i circa 1.500 m3 di rifiuti prodotti annualmente da ricerca, medicina e industria e i circa 809mila m3 di rifiuti che deriverebbero dallo smantellamento delle nostre 4 centrali e degli impianti del ciclo del combustibile. Con quale procedura e garanzie avremo la localizzazione del sito? Sappiamo già la risposta: tornare a Scansano Jonico”, paventano le associazioni.